Questo articolo è la dimostrazione di come le cose non siano sempre come ci aspettiamo, come le vorremmo. Sono semplicemente come sono.
Cominciamo dal principio.
Due settimane fa ho visto (durante un volo di Emirates, quindi non posso consigliarvi una piattaforma che costi meno di un biglietto aereo) il meraviglioso e dolorosissimo film d’animazione taiwanese On Happiness Road. La storia, prima prova alla regia per Sung Hsin-yin (fortemente autobiografica), è quella della bambina, poi ragazza e donna, Lin Shu-Chi. Incontriamo la protagonista da piccola, mentre si trasferisce dalla campagna alla capitale Taipei, appunto a Happiness Road.
Flash back e flash forward aiutano lo spettatore a rimontare la vita di Chi, che scorre in frammenti dall’età adulta a New York alla giovinezza a Taipei, all’infanzia e di nuovo all’età adulta. Il crescente senso di perdita dell’identità, che Chi ricollega al suo matrimonio affrettato e alla morte della nonna, è in realtà molto profondo e intriso dei soprusi subiti dalla popolazione di Taipei nel corso degli anni.
Il tradimento delle promesse di benessere e felicità si riflette nelle scelte obbligate della protagonista: obbligata da bambina a imparare il cinese e rinnegare il sangue aborigeno (che vive nella figura di sua nonna), cresce con un forte senso di giustizia. Per questo partecipa alle rivolte studentesche, che rivendicano maggiore libertà di opinione e partecipazione democratica. Dopo aver sacrificando voti e stima della famiglia per seguire le sue inclinazioni, Chi deve arrendersi alla necessità economica e accettare un lavoro nel giornale governativo della città. La sua infelicità cresce insieme al malessere economico della famiglia, con il padre a casa e sempre più dipendente dalle scommesse e la madre stanca e preoccupata. Così va via di casa, si trasferisce a New York e sposa un uomo americano, ma dentro di lei non cambia niente, anzi.
La cronaca estera ha cominciato a premere nel retro della mia testa. Guardando quegli studenti, pestati e imprigionati, non sono riuscita a non pensare a quella notte lunga cinque mesi, costata sette vite e 1200 arresti dall’altra parte del mondo. Mi è tornato in mente in un flash chi si chiede se ne valga la pena, se il prezzo di un’economia distrutta dalle proteste e delle vite interrotte dei manifestanti non sia davvero troppo alto. A chi credeva che anche la Umbrella Revolution dell’autunno 2014 fosse un pericolo inutile.
Qui ho creduto che l’espansionismo cinese avesse una volta minacciato anche Taipei, che la storia si stesse ripetendo. Ma non è così: siamo così abituati a pensare alla repressione delle libertà democratiche nell’ottica della Repubblica Popolare cinese che non mi sono chiesta se quella, piuttosto, non fosse la Repubblica di Cina. I nazionalisti di Chiang Kai-shek, che viene acclamato come eroe proprio nel cartone che stavo guardando. Sono caduta nella trappola della propaganda, che se motivata in un momento di tensione tra Kuomintang e comunismo maoista, non precludeva affatto una deriva autoritaria. O addirittura, più che una deriva, una storia intrinsecamente violenta e repressiva dal 1947 agli anni ’90.
Sì, entrambe hanno vissuto un fiorente commercio e la colonizzazione giapponese. Ma non ci sono altri elementi che colleghino le due città, le loro lotte e il loro futuro dentro o fuori dal controllo cinese.
In questo articolo di Cinquesensi non c’è un senso di collegamento, perchè pensavo ci fosse, e poi è arrivata la realtà. Spero il film sia reperibile in Italia, perchè è un gioiello di eccezionale profondità. Analizza il tema del razzismo cinese contro gli aborigeni, contro i taiwanesi e contro gli occidentali, le problematiche legate al matrimonio e alla famiglia, al senso di responsabilità e a quello della stanchezza logorante. La creazione di Sung Hsin-yin stringe il cuore e apre la mente, e nel mio caso fa aprire gli occhi.