Calcio in tv, sui banner, nelle fermate della metro. E ancora sui volantini, alla radio e su instagram. Più che naturale, allora, pensare che il giornalismo non abbia bisogno di dedicare nuovi sforzi alla materia: si parli di altri sport, o magari non se ne parli affatto. Pensate quanto mi sono sorpresa, due giorni fa, a pensare che se il giornalismo non ha bisogno di altri pezzi di sport, l’arte forse sì.
Tutto è iniziato quando mi sono iscritta alla giuria popolare di ArteKino, il festival online di cinema europeo. Nove produzioni d’autore o indipendenti, lunghe e brevi, divertenti e dolorose, a disposizione dei primi 5mila fortunati che decideranno di iscriversi gratuitamente e aderire (fate ancora in tempo a vederli sul loro sito, che giuro non lagga mai: http://www.artekinofestival.com).
Come sorta di chicca personale ho contravvenuto alla mia regola aurea sulla preparazione mentale e non ho guardato nulla delle “proiezioni”, né dei registi, né delle trame, né degli autori. E sono molto contenta di averlo fatto, perché un film sul calcio non me lo sarei visto mai (perlomeno non volentieri), e avrei fatto male perché mi sarei persa Ruth.
Intriso di toni pastello e musica soffusa, Ruth (2018) è la vera storia di una guerra: quella ambientata nei Sixties tra le due squadre portoghesi Sporting e Benfica per aggiudicarsi un giocatore di calcio di straordinario talento, il mozambicano Eusebio da Silva Ferreira. So di bestemmiare quando dico che non lo conoscevo.
Eusebio è poco più di un ragazzo quando dalla bidonville di Lourenço Marques (oggi Maputo, capitale del Mozambico) viene catapultato nei lussuosi appartamenti di Lisbona in madrepatria. Tutto grazie a un talento straordinario: chi lo vede lo ammira, lo vuole, lo paga. Sempre di più: prima un panino, poi una maglia, una casa per la madre, un contratto a vita e il campionato europeo.
Quella che è a tutti gli effetti una spy story (“Ruth” non è altro che il nome in codice di Eusebio per far perdere le sue tracce) apre progressivamente a scenari, musiche, sapori, temperature diverse. Il Mozambico e il Portogallo si parlano ma non si capiscono, e lo spettatore vive questo conflitto solo attraverso i media all’interno del film: giornalisti che battono a macchina, reti televisive, voci di sottofondo nei bar e nelle taverne. La cheta quotidianità in cui ci si cala è così pixelata di tante piccole anormalità: quadri di Salazar sugli usci, accenni di dittatura per le ingerenze nello sport e nell’informazione, realtà coloniali e guerra alle Nazioni Unite.
Beh, ma resta un film sul calcio no?
No. La biopic di questo calciatore (diventato un eroe mondiale dello sport per il ventennio ’60-’80, con un numero impressionante di coppe e medaglie sul curriculum) non mostra un campo da calcio. Unica concessione, le immagini di repertorio a ridosso dei titoli di coda (isolate dal resto del film con un eloquente nero).
Il regista e figlio d’arte António Pinhăo Botelho crea un paradosso dei cinquesensi: mostra senza mostrare. Lo spettatore è testimone della bravura di Eusebio solo perché la vede negli occhi del pubblico estasiato, di allenatori e imprenditori. Non serve mostrare allenamenti, per parlare di un talento, e non bisogna essere presenti per sentire eccitazione, orgoglio, soggezione.
La produzione, a nome Paulo Branco, è cromaticamente armoniosa (vi piace Wes Anderson?), un tono rilassato e un ritmo altalenante e vivo. Se volete spendere due ore a (non) farvi una cultura calcistica, respirare l’aria arancione del Mozambico e sentire la brezza frizzante del Tejo, pensate a Ruth.