«Non capirai mai, e va bene così». Una figlia che stringe tra le braccia la madre anziana, la stessa che un giorno prima l’ha chiamata mostro e denunciata alla polizia.
La giornata di Petrunya era già iniziata male: un colloquio da segretaria in cui avevano prima insultato la sua intelligenza di laureata e poi il suo corpo di donna trentenne, per poi rimandarla a casa dicendo che mancando esperienza e una taglia 38 non avrebbero saputo che farsene di lei. Niente di nuovo. Già pensava di non avere posto, nella città di Štip (Macedonia del Nord): storica e disoccupata (qui ho sofferto personalmente), nessuno vuole uscire con lei perchè additata come grassa e cocciuta, e la sua unica amica è distratta da una relazione con un uomo sposato.
La giornata inizia male e finisce peggio, quando decide di sfidare la tradizione che accomuna Štip a tante altre città del Paese. O meglio, non decide: si getta nei ghiacci del Bregalnica, il fiume che attraversa la sua città, senza pensare alle conseguenze, senza pensare a niente. «Ero come un animale, senza una volontà», confessa più tardi a un poliziotto più umano degli altri. Vuole solo quella benedetta croce che tutti cercano, quella lanciata in acqua dal pope per la cerimonia dell’Epifania Ortodossa. A chi la recupera, un anno di buona sorte. Petrunya ne avrebbe un disperato bisogno. La cerimonia però, come la processione che la anticipa, è riservata agli uomini: la sua sola presenza in acqua è irregolare, il fatto che abbia vinto una disgrazia.
Tutto questo è un film, Dio è donna e si chiama Petrunya della regista di Skopje Teona Strugar Mitevska. Tutta questa è una storia vera. Una giovane donna che si appropria della santa croce e viene arrestata senza apparente motivo: nessuna legge macedone prevede conseguenze per l’intervento in una cerimonia religiosa. Nonostante questo, viene trattenuta per quasi due giorni (una piccola concessione all’unità aristotelica della pièce) senza che le sia assegnato un avvocato o comunicato il motivo per cui sia in stato di fermo. Minacciata dai poliziotti, dal pope e dai violenti coetanei, Petrunya si concede qualche piccolo pianto nervoso in una altrimenti granitica reazione. Un pochino di supporto le arriva da una giornalista, che (con piccole ipocrisie pietistiche) mescola la denuncia femminista a una rivincita di carriera negata.
Faccio ammenda.
L’associazione sensoriale di questo articolo soffre purtroppo di un vizio culturale: non so come si chiami il cibo che la protagonista mangia all’inizio del film, e che mi serve disperatamente per esprimere un concetto. La mia scarsa conoscenza della cucina macedone (e la carenza dell’altrimenti potente internet in fatto di foto e informazioni) non mi permette nemmeno di intuirne il sapore, ma il suono è inconfondibile: una cosa frittissima.
Avrei potuto cercare un’altro riferimento per questa recensione, qualcosa di cui io sappia il nome, eppure la grassoccia frittella è troppo significativa. Perché è grassa e malsana, ma anche perché è sua madre a dargliela per colazione. Questa è la stessa madre, piccola e piena di rabbia, che si lamenta della grassezza della figlia al punto che la giovane, mortificata, le chiede mentre si spoglia «Ti fa schifo il corpo di tua figlia?». La madre aveva distolto lo sguardo, e si rifiutava di rispondere alla provocazione. «Io mi sento libera solo quando sono nuda», conclude Petrunya annientata.
Quella madre che nasconde l’età della figlia e le chiede di mettersi un bel vestito per colpire il capo, è la stessa che le serve un piatto pieno di frittelline, forse di carne o mozzarella, forse dolci e zuccherose, per la colazione di un giorno importante.
Così è la vita di Petrunya: spinta da ogni parte a sbagliare ed esagerare è costretta a perdonare i suoi stessi carnefici. E lei perdona: per questo Dio è donna e porta il suo nome. Perfino quando il pope la insulta e raggira, lei è in grado di restituire – a lui e alla stessa comunità che le sputa addosso – quella croce che custodisce con amore in un panno, nel suo zainetto.
Gli sorride piano e, guardandolo negli occhi, confessa la sua vittoria morale: «Ne avete più bisogno voi».