Uno dei miei frutti preferiti è il cachi o caco. Non solo perché è uno dei pochissimi decenti del periodo invernale (o meglio, lo era prima della globalizzazione), ma anche per il sapore dolce e zuccherino e la consistenza morbida e sfilacciosa.
Mangiato da almeno duemila anni (è una delle più antiche piante da frutto coltivate dall’uomo), era definito dai cinesi come “albero delle sette virtù”: longevo, prolifico di ombra e spazio per i nidi, è resistente ai parassiti, bello, concimante e brucia bene. Altro che “Italia – terra dei cachi”, come cantavano Elio e le Storie Tese.
Introdotto in Europa durante l’Ottocento con il nome di Diospyros kaki ( “il grano di Zeus”) ottiene da subito un successo straordinario – li apprezzava moltissimo anche Giuseppe Verdi, che in una lettera ringrazia il vivaista Ingegnoli (che li portò in Italia dal Giappone) per avergliene regalati 6 alberi.
Connotato dei significati più varii, il cachi è un frutto innatamente evocativo: noto come “albero della pace” dopo essere sopravvissuto all’atomica su Nagasaki, è chiamato anche legnasanta a Napoli (per l’immagine cristologica visibile all’interno dopo il primo taglio) e manuzza da Virgin in Sicilia (perché il seme bianco tagliato in due mostra un germoglio simile a una piccola mano).
Tutte immagini delicate, un destino inevitabile per il cachi: la sua pelle crespa, perfettamente sferica, si sfalda al primo tocco. La solida idea che dà quando ancora è sull’albero si smonta al primo refolo di vento.
Un involucro perfetto e solido, ma fragile. Come il corpo umano.
Ho avuto questa sensazione mentre guardavo 1917, l’epopea sulla prima guerra mondiale supercandidata agli Oscar in sala adesso. Dopo i primi dibattiti, sul montaggio eccezionale, su un protagonista molto efficace e sull’ennesimo ritratto demoniaco dei tedeschi, mi sono ritrovata a considerare questo: un taglio, alla mano, al petto, compromette completamente il corpo. Senza spoilerare nulla, posso anticipare che basta davvero poco per morire, come se la condizione di equilibrio del corpo fosse un accidente e non la norma (magnificazione della macchina umana compresa).
In parallelo (o ancora di più, in contrapposizione) alla straordinaria fragilità del corpo, emerge la sua capacità di resistere. Tutta la pellicola diretta da Sam Mendes (autore di film che spaziano da American Beauty agli ultimi due 007) è sostanzialmente la storia di un uomo che sconfigge i suoi limiti fisici e psicologici per il greater good, il bene maggiore – con un’allusione lusinghiera allo sforzo bellico inglese in generale, ma non daremo alla propaganda la soddisfazione di spenderci più parole.
Quelle numerose volte in cui il limite sembra essere superato, là appare brevemente l’illusione di potersi sottrarre, riposare e forse anche morire. Un lusso troppo costoso.
Il film – che ho comunque apprezzato per la ricostruzione fotografica e lo spirito di ansia mista a rilassamento che cola sugli spettatori – è tutto concentrato su quel piccolo refolo di vento che accarezza il frutto del cachi e che potrebbe farlo cadere a terra.