Tra Etiopia e Kenya esiste un fiume, che come un padre e un dio dispensa la vita ai suoi figli. Duecentomila figli. E’ l’Omo, imponente e dal percorso irregolare, che con l’alternarsi di piene e secche nutre la terra e gli animali, permettendo la sopravvivenza di un ecosistema talmente conciliabile con gli uomini da essere plausibilmente uno dei primi luoghi di insediamento per caccia e raccolta della storia. Per ora. Da più di dieci anni questo ecosistema è sotto scacco: una enorme diga idroelettrica, la Gibe III, costruita tra 2006 e 2016 allo sbocco del fiume nel lago Turkana, altera la regolare alternanza del fiume, decimando vegetazione e animali e condannando le popolazioni indigene che ne dipendono. Oltre alla diga, un progetto della ditta (italiana) Salini Impregilo, costruita grazie ai finanziamenti del colosso Industrial and Commercial Bank of China nonché agli investimenti della Banca Mondiale, le già esigue acque del fiume sono incanalate lontano dalle rive verso i campi a coltivazione intensa di olio di palma e cotone. Questo ha spinto le popolazioni locali lontano dalla propria millenaria sede, dove coltivavano per lo più il sorgo (cereale simile al miglio), obbligandole a diventare sedentarie, abitare in baracche e dividere lo stesso territorio con popolazioni con cui potrebbero entrare in conflitto. Sono i Bodi, i Daasanach, i Kara, i Kwegu, i Mursi, i Suri e i Nyangatom. Chi si oppone viene imprigionato, torturato, stuprato.
Il MUDEC (Museo delle Culture) di Milano ospita la loro storia fino al 31 dicembre 2018 con Se a parlare non resta che il fiume, un’installazione artistica di Studio Azzurro e della fotografa Jane Baldwin a sostegno del movimento globale per il sostegno ai popoli indigeni, Survival International. E’ un reportage composto da più video in bianco e nero, che portano i volti e le voci delle donne della valle a diretto contatto con lo spettatore. Per attivare i video, gli ospiti devono interagire con una scultura posta al centro della sala.
Tocca l’argilla
L’esperienza aumentata è fornita dalla stessa installazione: come l’Omo, la scultura di argilla rossa serpeggia tra gli schermi nella piccola sala. Le schegge rosse e pastose rappresentano il nutrimento vitale del fiume, divinità misericordiosa, che lo elargisce ad ogni piena lungo le rive. Per potere fruire dei video, bisogna prelevare un frammento dal fiume, infilare il braccio in un cilindro cavo di metallo e lasciarlo cadere in un sacchetto di iuta. Così si aziona il sensore, ma si è anche costretti a toccare l’argilla, opaca e grassa, prelevarla dalla iuta su cui è appoggiata e infilare la mano dentro il cilindro, che è pensato per simulare i bracciali tipici delle donne sposate. L’esposizione ricrea quindi il legame con la terra, anche nella sua forma di legame con la società. Le donne dell’Omo sono concrete, come l’argilla, ma allo stesso modo sono fragili e messe nella condizione di essere depredate facilmente.
Per chi non potesse andare a Milano, ma avesse comunque voglia di vedere le donne dell’Omo e provare il grasso nutrimento dell’argilla fra le dita, vi esorto a seguire Survival International e a fare l’argilla a casa.
Giulia, ciao .Un articolo che fa conoscere luoghi mai pensati. Per scriverlo ti è stata necessaria una profonda ricerca…Non studiare troppo, Giuliettina ..!
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